Un papà in mediazione familiare: esperienza a lieto fine

Questa testimonianza è l'esperienza di un papà che, con l'aiuto della compagna da cui si andava separando come coppia, e andava costituendo un nuovo assetto familiare, ha intrapreso il viaggio della mediazione familiare. A lui la parola:

"Avete presente un pugile suonato che resta sul ring incassando colpi su colpi, con le gambe che quasi gli cedono? “Perché mai..?” è la domanda frequente ”.. perché non getta la spugna?” Sarebbe più facile e meno doloroso.. Ma anche se barcolla sempre più pesantemente continua a voler restare in piedi, ostinato nel portare a termine l’incontro, perché ogni qualvolta il suo sguardo incontra quello della moglie, del figlio, della famiglia, dei suoi amici egli si sente in colpa, si sente un debole, in dovere di dimostrare che può farcela. Ad ogni fine ripresa continua a dirsi che deve tenere duro, cercare una strategia nuova per reagire e mettere in difficoltà l’ avversario, ma questi dimostra la sua potenza, alle volte oserei dire prepotenza, sempre più efficacemente. Ora sei lì che ragioni, e di fronte a te non vedi via d’ uscita, cominci a capire che se ad un certo punto il match lo avevi in pugno, man mano hai commesso degli errori importanti, di strategia, errori pian piano divenuti fatali.

Pensare che eri già stato messo KO tre volte, ma ti eri rimesso in piedi mostrando nuova linfa ed apparentemente riprendendo in mano il match. Si, stavi dimostrando che “non fa male, non fa male”, ma dentro di te, nella tua testa, indelebili gli istanti dal ricevimento del colpo micidiale, le gambe che si piegavano, le luci che giravano e l’ odore del tappeto.. quello si indimenticabile, un misto di sudore, lacrime e sangue. Perdi lucidità e diventi ostaggio dell’ avversario, sei in balia dei suoi colpi, ma NESSUNO può fermare quell’incontro. Nessuno tranne te. O lei. In un attimo realizzi che sei all’angolo e non riesci a venirne fuori. Panico.. cosa fare adesso? Cosa farebbero gli altri al mio posto? Cosa si aspettano gli altri da me ora? Realizzi in un attimo che ti devi arrendere, accettare la sconfitta. Basta, sei un perdente, getti la spugna pur di fermare questo massacro. Così mi sono sentito quella sera quando ho detto a mia moglie “basta, io non ce la faccio più, mi voglio separare perché non ti amo più”.

Mi sembrava quasi di essere spettatore di quel dialogo surreale, quasi fosse un film sentimentale di quelli tante volte visti in TV, ma le parole uscivano dalla mia bocca con la lucidità che solo la sofferenza estrema ti da. E non è facile quando devi deludere una persona importantissima, la persona che avevi scelto come tua compagna di vita, la madre di tuo figlio, per la quale nonostante le divergenze provi un grandissimo affetto e senso di protezione. Ma avevo gettato la spugna, ed ero pronto ad andare in infermeria. Sapevo di andare incontro alle tragiche conseguenze che in tanti mi avevano prospettato. “Finirai in mezzo ad una strada e non ti farà vedere tuo figlio”. Quante volte me l’ hanno detto? Ho perso il conto! Era uno degli spauracchi agitati dai miei “tifosi” per convincermi a tenere duro. Ho subito pensato che era fondamentale farsi aiutare per dare supporto psicologico a lei e prepararci su come gestire al meglio la questione con nostro figlio di 5 anni. Non era difficile parlare con lei cercando di accordarci al meglio, ma si sa, ognuno annaffia il proprio giardino, così come io ricevevo consigli dalla mia famiglia, così succedeva a lei. 

E se la mattina eravamo d’accordo sul da farsi, al pomeriggio lei cominciava con le rivendicazioni, ed io sentivo echeggiare nella mia mente l’ urlo dei tifosi.. Inaspettatamente, dopo quello che sarebbe stato l’ ultimo di diversi colloqui presso il consultorio familiare durante il quale siamo stati liquidati in meno di dieci minuti (e meno male che queste persone dovrebbero ASCOLTARTI) ci siamo guardati in faccia un po’ perplessi ed abbiamo deciso di trovare insieme una via d’ uscita. Dopo qualche giorno lei mi fa sapere che ha sentito un legale nell’ interesse di tutelarsi, e che questi le ha proposto di cominciare una mediazione. “Una trappola”, ho subito pensato mentre la folla inneggiava gli slogan nella mia mente. Decido però di accettare perché dopo tutti quei pugni presi, non ti spaventa più nulla.

E’ stato così che ho varcato quella soglia, Dio benedica quel giorno, entrando stordito ed uscendone frastornato. L’ idea mi sembrava un po’ folle; restare in contatto con quella che sarebbe diventata la mia ex moglie, addirittura sviluppando un rapporto di amicizia e rispetto. Volevo solo scappare via, invece il mediatore mi ha dato una nuova prospettiva: smettere di essere compagni di vita, smettere di essere marito e moglie, smettere di amarsi non significa buttare all’ aria tutto quello che di buono c’ è stato.. avere messo al mondo un figlio, essersi amati e rispettati, essersi supportati l’ un l’ altro nei momenti difficili, nelle perdite dei nostri cari, aver gioito e pianto insieme tante volte. Avremmo smesso di essere una coppia diventando qualcosa di diverso, ma non di certo due nemici. 

Rimaniamo i genitori di Giovanni, lo saremo per sempre, e tutte le nostre scelte gireranno intorno a lui tenendo conto che anche noi, i suoi genitori, dobbiamo poter essere felici, ed oggi possiamo esserlo anche vivendo due vite separate. Lavoravamo insieme all’ epoca dell’ inizio del percorso di separazione, e contro il pronostico del 99% dei tifosi.. lavoriamo ancora insieme. Lei era di un’ altra regione e tutti, me compreso, avevano giurato che sarebbe tornata a casa dalla madre, strappandomi il bambino. 

Non è andata così. Soprattutto lei ha deciso di affrontare questa prova durissima, evitando di colpevolizzare solo me e prendendosi una parte della responsabilità. Dopotutto, se una coppia non funziona più non può essere tutta colpa di uno solo. Potevamo essere come la maggior parte delle coppie separate; piene di rancori e di cose da rinfacciarsi, con i figli infelici, o straviziati o ignorati. 

Siamo due persone che grazie alla mediazione si vogliono bene, si rispettano, si supportano, e continuano ad essere i genitori responsabili di Giovanni, che non se lo scambiano come un oggetto o che lo usano per farsi i dispetti. Stiamo imparando a camminare su due strade parallele ma vicine, a dir la verità spesso queste strade si incrociano ancora, ed è qualcosa che non avrei mai pensato possibile. Mi sarebbe piaciuto mantenere dei contatti migliori con la sua famiglia, così come invece è successo a lei con la mia, ma si sa, le persone non sono tutte uguali, idem le famiglie. 

Il match era finito, venni portato in infermeria e mi aspettavo che qualcuno dicesse “mi spiace, non sei più in grado di combattere”. Invece sono stato curato nel corpo e nell’ animo, mi è stato insegnato a capire gli errori e ad accettare di non essere infallibile. Ho ripreso ad allenarmi ed ho ricominciato a combattere, ho le cicatrici davanti a me, non sono brutte, le chiamo “esperienza”, e non rinnego le scelte che ho fatto semplicemente perché quando le ho fatte ci ho creduto fino in fondo. Combatto il mio match.. sì, perché.. ho ripreso quel confronto ed oggi so quanto quei colpi che ricevo, in apparenza innocui, possano alla lunga fiaccare la mia resistenza. 

In quei momenti bisogna respirare, dialogare, aprirsi sinceramente perché se si vogliono risolvere i conflitti, la strada migliore non è quella del litigio ma del confronto. 
Ed è questo il più bel regalo che ho ricevuto dall’ esperienza di mediazione."

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